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  “La fine della globalizzazione?”: il nuovo libro di Alessandro Volpi
La presentazione il prossimo 21 dicembre: un'anticipazione dei contenuti nell'intervista rilasciata dal docente di geopolitica ai microfoni di ContattoRadio
Massa-Carrara - Globalizzazione. Una parola che è ormai entrata nel linguaggio quotidiano, e che dovrebbe rappresentare un mondo destinato a diventare progressivamente, grazie alle nuove tecnologie e alla liberalizzazione dei commerci, un grande villaggio globale, ormai privo delle barriere del passato. Allo stesso tempo, però, dalla cronaca di tutti i giorni riceviamo segnali che vanno in una direzione diversa: giorno dopo giorno possiamo constatare, ad esempio, che le guerre condotte dall’America di Bush hanno messo in crisi l’ONU, lo “Stato degli Stati”, oppure che l’Unione europea fa sempre più fatica a darsi una costituzione, o ancora che si stanno diffondendo tra i governi occidentali le tentazioni di proteggere i propri mercati dall’aggressiva concorrenza delle merci cinesi.

Intanto le distanze tra Nord e Sud del mondo si ampliano, mentre i conflitti etnici e religiosi in Africa e Asia si moltiplicano. Quali caratteristiche sta dunque assumendo realmente l’attuale processo di globalizzazione, e quali sono i suoi limiti? Alessandro Volpi, docente di storia contemporanea all’Università di Pisa, elabora proprio questi interrogativi nel suo La fine della globalizzazione? Regionalismi, conflitti, popolazione, consumi (BFS edizioni, 2005), mettendo a fuoco, attraverso il riscontro di dati di prima mano e gli spunti offerti dalla più aggiornata letteratura in materia, le più recenti trasformazioni socio-economiche e politiche avvenute sul pianeta.


Volpi avvia il suo ragionamento dimostrando come in realtà di globalizzazione nel senso più comune del termine si possa parlare solo con riferimento alla circolazione dei capitali e degli investimenti: diventa invece più difficile parlare di globalizzazione per quanto riguarda lo scambio delle merci, considerate ad esempio le sovvenzioni e le protezioni di cui i contadini europei e statunitensi continuano a profittare, oppure nel caso della libertà di muoversi degli esseri umani, date le forti restrizioni che ancora i paesi più ricchi oppongono all’ingresso di donne e uomini di molte nazionalità nei propri territori.

A queste contraddizioni si sovrappone poi un nuovo – decisivo – fenomeno che secondo Volpi contribuisce a rendere sempre meno convincente la rappresentazione di un mercato mondiale destinato a diventare unitario, ovvero la speciale natura dell’impetuosa crescita economica di stati, come Cina, India e Brasile, che ormai non possono essere più collocati tra i “paesi in via di sviluppo”. Queste economie, ricorda l’autore, si stanno espandendo a vista d’occhio principalmente grazie alla loro capacità di tenere su livelli molto bassi gli stipendi dei lavoratori (raramente più di 100 dollari mensili) e così di produrre a prezzi infinitamente inferiori rispetto ai paesi occidentali.


Si viene così a profilare una sorta di “regione economica” o più precisamente – secondo la definizione di Volpi – un «regionalismo di scambio» tra i paesi emergenti, destinato ad un futuro di crescente integrazione al suo interno ma che rappresenta un elemento di frantumazione della scena globale, visti i differenti, quasi inconciliabili interessi che progressivamente vengono alla luce. A partire da questo fenomeno dunque la globalizzazione viene ad assumere una nuova forma «a macchia di leopardo», caratterizzata da numerosi regionalismi, una chiave di lettura da non intendersi strettamente nel suo significato “geografico” che esprime le tante situazioni di sempre più intensa interrelazione, ma di contemporanea chiusura verso l’esterno, che vanno diffondendosi su scala globale. Questi fenomeni di frammentazione, e di riaggregazione, sono ovviamente condizionati in maniera profonda dall’azione di iperpotenze come USA e Cina, alle quali Volpi dedica una specifica e dettagliata analisi.

Si rendono poi ancora più urgenti i problemi dell’inquinamento dell’atmosfera e del surriscaldamento del pianeta, di fronte ai quali il protocollo di Kyoto sembra ormai diventato poco più di un palliativo. Le catastrofi naturali si sono infatti infittite e hanno fatto sentire le loro conseguenze, economiche e umane, soprattutto nei paesi in via di sviluppo: negli anni novanta il 96% delle vittime di inondazioni, terremoti e uragani abitava in questi stati. I cataclismi sono anche tra le cause delle migrazioni di milioni di persone, così come i conflitti etnici e religiosi, che compromettono ulteriormente le possibilità di vincere la povertà del continente africano. Del resto sfuma ormai l’obiettivo di poter prevenire diplomaticamente gli scontri armati: dopo la caduta del muro di Berlino le guerre tra stati sono state sempre meno frequenti a livello mondiale, e sempre più spesso a combatterle sono truppe paramilitari o mercenari, non gli eserciti regolari.

Di fronte a questa «regionalizzazione dei conflitti», e all’impossibilità di trovare una sede internazionale per regolarli, emerge con grande evidenza il fallimento dei sogni di chi immaginava una globalizzazione tendenzialmente “democratica”, dove i contrasti e le difficoltà venivano affrontati in maniera collettiva su scala planetaria. Il quadro delineato dal volume raffredda le speranze: in questo senso la globalizzazione, scrive Volpi, «pare esaurire la propria vicenda ancor prima di essersi realizzata».

 Articolo a cura del Dottor Alessandro Breccia

Ascolta l'intervista al Prof. Alessandro Volpi

Ultimo aggiornamento ore 19:34 del 12.12.05 | redazione
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